Questo articolo è un omaggio a Roberto Bellini, che è stato capace di immergermi con maestria nella viticoltura eroica della Ribeira Sacra. Leggendo il nuovo numero di Vitae, la stupenda rivista dell’A.I.S. che mi arriva trimestralmente, ho pensato che era un vero peccato non condividerlo con te. E se può essere un modo per farti conoscere questo magazine meraviglioso che da solo vale la quota associativa dell’A.I.S. e ti darò una piccola ulteriore motivazione ad unirti a noi ne sarò davvero felice. Forse penserai che sono stata una pazza a riscrivere tutto a mano, ma ho pensato che ne valeva davvero la pena. Ci ho impiegato ore per scriverlo, per selezionare le foto ed aggiustarle in modo da regalarti una visione ancora più definita di questo straordinario racconto e per questo ti chiedo di essere così gentile da ringraziarmi condividendolo su twitter 🙂

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Roberto Bellini, Sommelier ed autore della Rivista A.I.S. Vitae, incontra professionalmente il vino nel 1977. Dirige un’azienda chiantigiana per molti anni. Nel frattempo segue la formazione AIS, aggiornandosi anche con Master specifici su Whisky e Champagne, nonché con il seminario d’ammissione all’istituto Master of Wine. Più volte consigliere nazionale dell’A.I.S., componente della Giunta Esecutiva Nazionale e vice Presidente (1999-2002 e dal 2010). Collabora con riviste specializzate e scrive di vino come Toscana Libera Terra di Vino (1999), Champagne e Champagnes (2009). Nel 2005 è il primo italiano a vincere il titolo di Ambassadeur du Champagne Italie.

Fonte:  Vitae n°102 Marzo 2015

A partire dal 218 a.C. i Romani iniziarono l’espansione nell’odierna Spagna e chiusero l’impresa bellica intorno al 19 a.C. Tra le zone più restie alla sottomissione ci furono quelle del nord-ovest tra cui i territori della Ribeira Sacra: una volta conquistati, furono subito sfruttati per piantarvi vigneti, essendo stati immediatamente individuati come pendii ideali per la maturazione delle uve. La Ribeira Sacra è uno spicchio di terra in cui la storia ha lasciato appunti e spunti di memoria senza molte testimonianze archeologiche, ma ha mantenuto una verginità ambientale dall’immenso valore naturalistico.

L’odierna regione è la Galizia che, in fatto di viticoltura, è stata relegata ai margini della fama enologica fino a quando non esplosero, una decina d’anni fa, l’Albariño e la DO Rìas Baixas, le cui sottozone migliori sono Val do Salnes, Condado de Tea e O Rosal. Fu infatti la Rìas Baixas a rendersi attrice di un po’ di rinnovamento nel sonnecchiante mondo del vino bianco spagnolo, spesso rilassato in una prolungata siesta. Più del vino poté la religione per questa regione, vista la presenza di Santiago di Compostela e di tutti i caminos che toccano ed attraversano i boschi ed i vigneti di questo aspro e verdissimo territorio. La Ribeira Sacra è un bulbillo di suolo incuneato tra le DO Valdeorras ad est, Ribeiro ad ovest e Monterrei a sud, mentre lascia in lontananza oceanica le elegie aromatiche dell’Albariño. Per i francesi sarebbe un cul de sac, per noi italiani una strada senza sfondo.

albarino vino

Eppure questa non via di uscita non va interpretata come negatività enologica, ma piuttosto come una cassaforte di storicità, forse di sacralità. Che sia per questo che la Ribeira è “Sacra”?

Il territorio vitivinicolo potrebbe essere definito quadri-fluviale, coniando di fatto un’intersezione acquatica innovativa, se contestualizzata nell’ambiente viti-culturale. Da nord discende il Rio Miño, da est fluisce il Rio Sil e in esso si gettano il Rio Cabe da nord e il Rio Bibei da sud. Acque purissime, rinfrescanti per l’ambiente, capaci di scavare e modellare il duro granito e la nera ardesia tanto da creare preoccupanti e pericolosi coste chiamate ribeiras: porzioni di terra poco ospitali, faticose da lavorare e avare nelle rese agronomiche, terre che affamano i campesinos. Raccontata con questa prefazione, sembrerebbe tutto un poetico lussureggiar di vita passata e presente, ma invece così non fu.

Va da sé che i Romani la sfruttarono viticolturalmente per supportare la marcia delle assetate legioni verso le rive dell’oceano. I terrazzamenti furono per l’epoca un azzardo, essendo – e lo sono ancora – un intaglio scolpito ed inciso nella dura stratificazione rocciosa, inabile ad ospitare una coppia di potatori, figuriamoci un animale da soma utilissimo per alleviare le sofferenze degli stremati peònes. Alcuni vigneti erano addirittura raggiungibili solo per via fluviale.

vendemmia ribeira sacra

Alla primordiale progettualità viticola dei Romani seguirono i monaci che, tra una preghiera ed un’indulgenza, un miserere ed un’estrema unzione, proseguirono l’opera di ardito terrazzamento viticolo delle sponde dei fiumi Sil, Miño e Bibei. Fu un lavoro duro e pesante, basato solo sulla forza naturale dei muscoli, un’arrampicata che stroncava le gambe, disarticolava la colonna vertebrale e, alla fine di una calda giornata, il volto era del colore rosso di un’aragosta bollita, mentre il cervello si lessava.

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Nonostante le enormi difficoltà, l’asprezza agricola del territorio fu custodita con alterne, più o meno fortunate, vicende per quasi duemila anni, poi si abbatterono due dissestanti cataclismi: la fillossera e la Guerra Civile. Fu un’accoppiata distruttivamente micidiale, l’avido e malefico afide succhiò la vita dalle radici delle viti, mentre la Guerra Civile devastò rovinosamente il territorio non solo in modo materiale, cioè economico, ma anche psicologico. Le nuove generazioni non resistettero a quegli sconquassi ed emigrarono massivamente, i terreni rimasero incustoditi e le terrazze coltivate a vite furono abbandonate. La boscaglia circostante riprese i suoli sottratti nei millenni, i terrazzamenti furono risucchiati e stritolati dalla forza della natura ed il paesaggio iniziò a traslarsi come negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo governo: e ben sappiamo quali nefasti effetti possa generare il cattivo governo!

Ambrogio Lorenzetti Allegoria ed effetti del Buono e del Cattivo governo

Alle vicende occorse a questi vigneti non è abbinabile miglior ritornello se non quello tratto dalla canzone di Bruce Springsteen Atlantic City dell’album “Nebraska” (1982): “Everything dies, baby, that’s a fact, but maybe everything that dies someday comes back”. E quei vigneti “morti” sono rinati! Una resurrezione sorprendente ed inaspettata, ma piena di energica volontà di rivincita sulle sciagure che il passato aveva riservato a quelle umili popolazioni. Un’accensione di nuove voglie agricoltura, cui i màs ancianos de la comarca galiziana guardarono inizialmente con pessimistico scetticismo. Eppure tutto è rinato, le terrazze su cui la vite vegetava sono state restaurate oppure ricostruite e si è prodotto di nuovo il vino: viva el vino!

Come era facile intuire, la difficoltà non era quella di fare vino, c’era da interrogarsi su quale dovesse essere l’identità e/o la personalità della recuperata Ribeira Sacra: un crocevia enologico che strizzasse l’occhio al mondo nuovo, oppure un tuffo appassionato e melanconico nelle leggendarie avventure viticole del passato?

Come in una favola che si rispetti e sia egualmente partecipe dell’emozione dell’attesa, non c’è stato tempo di vaneggiare o fantasticare a lungo: “arida terra, arido vino” è sembrato il miglior connubio per uscire dagli ammiccanti favoleggiamenti di un facile futuro. La Ribeira Sacra, si son detti, è quasi inaccessibile. Così lontana dalle luci della ribalta che anche qualche abitante della Galizia non saprebbe dare informazioni stradali per arrivarci. Pertanto, hanno dato valore all’essere ai margini della conoscibilità, individuando in ciò una dote da offrire, o forse da porre con vanto ed orgoglio sul piatto delle bilance mediatiche e non solo. Per fiorettare questo individualismo pseudo eno-eremitico bisognava trovare altri atout da spendere, quindi perché non distinguersi mantenendo i vecchi vitigni locali, giocare sull’atavico connubio che quei varietal hanno con il suolo stratificato in granito ed ardesia, puntare sull’unicità e sugli speciali microclimi, nonché sulle estreme escursioni termiche che scaturiscono dalla presenza delle acque e dalla rigidità delle coste, e infine da quella voglia di fare il nuovo con innovativi antichi vini?

Fortunatamente è prevalsa la linea del vecchio, della tradizione, della romanità e nemmeno il popolare tempranillo è stato ammesso. C’era anche da ridefinire o recuperare l’identità di un vino. Un vino questa volta da destinare ad un mercato diverso da quello che caratterizzava la storia della zona, spesso per autoconsumo, ottenuto da una miscela di grappoli – spremuti nei lagares in vigna e qualcuno vi faceva anche la fermentazione alcolica – con l’eccedenza venduta in carati ai bar ed ai ristoranti di Lugo tramite avveniristico trasporto via fiume.

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Piccola e doverosa precisazione dedicata a tutti i Romagnoli come me: qui non si intende Lugo di Romagna, ma la provincia galiziana di Lugo, affacciata sull’oceano atlantico, i cui 355.000 abitanti sono chiamati luguès. E come potete vedere da questa splendida veduta della Cathedral de Lugo, non assomiglia proprio al nostro paese romagnolo… 😛

 In questo esuberante entusiasmo di rinascita, i vignaioli hanno cominciato a guardarsi intorno, a studiare la produzione di vino nelle zone limitrofe, ad analizzare più approfonditamente i terreni ed a cercare possibili analogie con altre realtà viticole. L’analisi dell’ecosistema vitivinicolo ha evidenziato una possibilità di sviluppo molto condizionato dai fattori fissi, mentre regalava i fattori variabili ad un raggio di intervento molto ridotto rispetto alle vicine denominazioni. Il clima è addirittura non chiaramente catalogabile, anche se prossimo alla condizione di puro continentale; c’è una parziale influenza atlantica ed una consistente – ma non pura – condizione continentale simile alla Borgogna mentre l’altra condizione è un mix di clima di Chablis e di Champagne. C’è però una costante climatica perché la ventilazione fluviale non solo allevia le ustioni dei grappoli sulla pianta durante il giorno; la notte fa molto di più, li avvolge di un alone frescheggiante che preserva i profumi contenuti nella cassaforte dell’epicarpo.

Da queste condizioni meso e microclimatiche e dalle ore di luminosità quotidiana, nonché da ciò che la terra può offrire all’apparato radicale, non si possono cesellare vini con picchi strutturali d’imponente muscolarità tannica e/o acida, non si possono colorare d’intenso le tinte cromatiche, non si possono creare profumi esplosivi; tutto si sposta in leggerezza di corpo, in equilibrio gustativo più espressivo, in sapidità e morbidezza velour, in un kit olfattivo da decriptare nella linea del fragrante fruttato e minerale, piuttosto che in prorompenti impatti di un solo maestoso profumo da concentrazione. Qualche winemaker dell’era di Facebook si sta forse spingendo oltre nel paragone vitivinicolo, azzardando perfino affinità organolettiche vicine alla Borgogna, ma di certo poco abbinabili alla Spagna del Nord.

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La Ribeira Sacra, la cui traduzione s’interpreta come “sacre coste”, non riflette alcuna condizione di venerazione per quegli aspri vigneti, ma trova invece origine dal fatto che la zona era costellata di conventi, monasteri  e chiese, per un totale di ben 18 strutture, e quei religiosi tennero in vita la coltura della vite fin oltre il XII secolo.

Tra le uve oggi coltivate spicca il Mencía e su questo si sta ricostruendo il futuro. La forma del grappolo è medio/piccola, con bacche compatte e di dimensione media a forma ellissoidale. Il problema di quest’uva consiste nella maturazione, anzi nella troppa maturazione, perché procura una preoccupante perdita di acidità a favore di un prosperoso seno di zucchero ed all’appiattimento del profilo retrolfattivo. Quando invece la maturazione si sviluppa in modo equilibrato, il vino si dipinge anche di un rosso cupo ma luminoso, con linea olfattiva in progressione prevalentemente fruttata derivante dalla semiaromaticità del vitigno, senza perdita di freschezza e con un po’ di spalla tannica: in queste condizioni diventa un rosso con un certo potenziale di affinamento.

 La tradizione enologica era basata sull’uvaggio, cioè sulla miscela di più uve, in perfetto stile Spagna del Nord; oggi le uve si fermentano separatamente e si procede poi all’assemblaggio. L’orientamento più seguito è attualmente quello di realizzare vini rossi da medio affinamento, cercando di esaltare i sentori tipici del Mencía, ossia di mora, lampone, sottobosco, ardesia bagnata; c’è chi opta per l’allevamento in barrique, anche nuove, senza però sovraccaricare l’apporto terziario. Normalmente c’è bisogno di controllare la potenza del lato morbido del vino, poiché i tannini del mencìa creano un buon volume strutturale, ma difettano d’intensità rugosa, lasciando spazio gustativo alle “dolcezze” del sapore fruttato ed alla saporosità minerale.

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Un esempio significativo di questo orientamento enologico è rappresentato dal vino Ribeira Sacra Lalama dell’azienda Dominio do Bibei. L’uva Mencía è usata per il 90%, con un apporto di garnacha, brancellao e muratòn. In vigna si vendemmia come 1000 anni fa, in cassette da 10 kg; oggi però fanno il triade e i varietal sono separati. Prima di iniziare la lavorazione, le uve (anche sgranellate) sono stoccate in ambiente refrigerato tra 0 e 2 °C, segue la fermentazione in botti di legno di varie capacità e di diversi passaggi. La macerazione si protrae per 2/3 settimane, la malolattica è svolta completamente, segue poi l’allevamento in botti di legno non nuovo con capacità che oscillano dai 45 ai 300 litri. I travasi e le decantazioni avvengono tutte manualmente: per rinfrescare il vino prima dell’imbottigliamento e della successiva sosta in vesto di circa un anno, si aggiunge un 15% di prodotto dell’annata successiva.

La tipicità e la particolarità del percorso in cantina non v’induca in errore, ne esce un vino da bersi nel medio periodo, perché il meglio di sé lo concede fin quando la leggera dolce spezzatura non è sovrastata dall’evoluzione marmellata del fruttato; è un vino che ha bisogno di restare vivace in freschezza per essere apprezzato in tutta la sua appetitosa golosità e per esaltare il finale di aroma con la sua naturale mineralità.

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I produttori affermano che l’uva Mencía, con i suoi fidi scudieri, sia in grado di produrre vini con due distinte caratterizzazioni: oceanica e montanara. La Mencía oceanica ha un profilo organolettico espresso in densità. Densità cromatica, opulenza olfattiva con maggior esoticità e sciropposità fruttata, il vegetale si trasforma in secchezza balsamica e la vaniglia fluttua sulla mineralità. Denso è il palato, con volume gustativo intessuto di alcol e tannino in fusione armonica, la succosità dei sapori fruttati sembra addolcirsi in un’estenuante resistenza aromatica di erbe di borico seccatesi nel verano caliente. La Mencía montanara ha un carattere selvatico fin dal colore, ma più all’olfatto perché i suoi sentori fruttati sono boschivi; mora di rovo, lampone, ciliegia marasca e corniola. La sfera odorosa vegetale è da sottobosco di montagna, un po’ di felce, un po’ di fungo, con una mineralità più rocciosa e terrosa. Ha un tratteggio gusto-olfattivo un po’ scorbutico in freschezza, pizzica per mineralità, il finale di gusto si riempe del sapore di rinfrescanti frullati al lampone ed alla marasca e chiude con un non so che di amaricante che rimanda, dicono loro, al sapore del vino di 2000 anni fa: è come bersi la storia!

I giochi ampeleografici sono definiti, per cui il futuro della Ribeira Sacra è proiettato nell’esaltazione dell’uva Mencía, per estrarre dalla sua bipolare identità organolettica le parti migliori e più espressive di ognuna. Non saranno prodotti di facile reperibilità, però alcune aziende sono riuscite a ritagliarsi un posticino di rilievo nelle boutique enologiche delle nazioni con poche od inesistenti remore eroiche, quali i mercati anglosassoni e del Nord America. Ciò che stupisce del territorio è la rigorosa interpretazione dell’essenza eno-spirituale dell’uva, la quale si combina con la sperimentale spiritualità enologica delle cantine, per un’espressione finale caricatasi di un coacervo d’innovazione su reperti eno-archelogici: questi risplendono in modo più aulico con le nuove intuizioni tecniche e viticoltura, piuttosto che non con una rigida applicazione dei concetti del passato.

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Questa gente di campagna merita un plauso per avere impedito che le radici di una viticoltura millenaria fossero per sempre sottratte alla solida linfa di un terroir più unico che eccezionale, capace, nella propria rinascita, di non essersi lasciato ammaliare dai favolistici eno-racconti di cabernet, chardonnay ed affini. Un esempio: la Bodega Ramon Losada. Nei secoli i Losada hanno prodotto vino dalle uve coltivate nei propri terrazzamenti per la loro quotidianità e venduto l’eccedenza nelle cittadine dei dintorni. Ciò non produceva profitti tali da mantenere integre le terrazze, per cui il disfacimento era progressivo ed inesorabile. Negli anni critici tra il 1940 ed il 1950 emigrarono in Sud America. Da buoni spagnoli coltivarono una sana nostalgia, tanto da tornare sui propri passi nel 1990, trovando anche poco gradevoli sorprese, come una parte di terrazzamenti sommersi dalla costruzione di una diga idroelettrica. Ramon Losada recuperò i vecchi terrazzamenti d’origine romana ed individuò in un fazzoletto, poco meno di un ettaro e mezzo, un sito spettacolarmente ideale per l’uva Mencía, in virtù dell’ardesia del sottosuolo e degli scoscesi terrazzamenti affacciati sul fiume Sil; ne è scaturito il Viña Caneiro, un vino che fonde, inusitatamente, frutta esotica, spezie, mineralità, goloso nel sorso, sostanzioso nella succosità, vorace in freschezza per effetto delle brezze dell’acqua del Sil. Un vino senza tempo, che ha attraversato il suo stesso tempo: per la famiglia Losada il Mencía Viña Caneiro è il gusto di 2000 anni di storia. In un territorio di rinascita e di riconquista viticolturale ed enologica, dove il senso del passato è permeato nelle essenze organolettiche dei vini, e il nuovo – non solo tecnica, ma anche marketing – dà una spinta di visibilità ad una terra che si era ritirata in un’enclave viticola e che adesso sta costruendo l’immagine di una Ribeira autoctona ed alternativa.

Roberto Bellini

Fonte: Rivista Vitae, n°102 di Marzo 2015

Sperando che questo racconto ti abbia arricchito quanto ha arricchito me, ti abbraccio.

Chiara

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